Archivio per settembre 2014

I SESSI TRASPARENTI | La trasparenza del buio | il nuovo romanzo di Roberto Pazzi

Con l’avanzare dell’età il desiderio d’amore si affievolisce, a tratti sfuma, ma non si estingue del tutto, e anzi talvolta può reimpennarsi con insospettata violenza. È questo il caso di Giovanni Caonero, Nane per i più stretti, professore sessantenne padovano. Nell’arco di pochi giorni l’attempato ma ancora piacente protagonista vivrà tre distinte passioni, tanto brevi quanto intense: la prima con Luca (un virile e ruspante trentenne gerontofilo rimorchiato in una sauna), la seconda con Pierre (quarantenne, stilista di fama internazionale, contattato su una chat), la terza con Eros (studente universitario, il classico allievo innamorato del maestro). Tre incontri distinti sì, ma al contempo concomitanti, concentrati, emblematicamente intrecciati. Giovanni Caonero ha alle spalle un matrimonio fallito, e solo ora che ha i capelli grigi, dopo anni di finzioni e malcelate velature, solo ora ha il coraggio di viversi fino in fondo, di veder esauditi i suoi desideri senza il controcanto del senso di colpa. (Continua a leggere)

LA MORTE DI BALZAC | L’hommage di Octave Mirbeau | Prima traduzione italiana (Skira 2014)

Nel 1907 Octave Mirbeau pubblica con l’editore Fasquelle La 628-E8, una sorta di diario automobilistico (il titolo non è che la targa della sua automobile) contenente scritti di varia natura, riflessioni, appunti di viaggio, e tra questi il controverso hommage a Balzac, tre brevi capitoli riuniti sotto il titolo La Mort de Balzac. Già all’indomani della sua pubblicazione Mirbeau si vede però costretto a ritirarlo. A destare scandalo sono proprio le pagine su Balzac, ritenute in più parti scabrose e gravemente diffamatorie, e in prima linea contro Mirbeau c’è un’agguerrita Anna Mniszech (figlia di Madame Hanska, moglie di Balzac). Per non incorrere in un processo Mirbeau, con il benestare dell’editore, ritira il volume e lo ridistribuisce privo dei tre capitoli incriminati. La Mort de Balzac vide la luce solo dieci anni dopo, ma in sordina e in un’edizione molto limitata; il testo avrebbe conquistato una diffusione più concreta solo nel 1989 (Editions du Lérot) e nel 1999 (Editions du Félin). Nel 2014, per Skira arriva la prima edizione italiana con la puntuale traduzione di Eileen Romano. Molto significativamente l’hommage si apre con una vera dichiarazione d’amore: «Amo Balzac. Non solo amo l’epico creatore della Comédie humaine, ma amo l’uomo straordinario che era, il prodigio di umanità che è stato.» (Continua a leggere)

RON MUECK | Ovvero l’altra proporzione

Lo scultore iperrealista australiano Ron Mueck nasce a Melbourne nel 1958. Figlio di giocattolai di origine tedesca, muove i suoi primi passi tra bambole e burattini, e le sue prime attività lavorative, una volta trasferitosi in Gran Bretagna, si concentrano fin da subito sul mondo dei pupazzi, dei cyborg e degli automi. Lavora per la televisione (specie programmi per bambini), per la pubblicità e per il cinema (nel 1986 collabora attivamente alla realizzazione dei personaggi del filmLabyrinth, regia di Jim Henson). L’esordio come artista, piuttosto tardivo, è databile intorno alla metà degli anni Novanta. Tra il 1996 e il 1997 realizza la scultura Dead Dad(Papà morto, opera esplicitamente dedicata a suo padre) che, presentata alla Royal Academy di Londra all’interno della mostra “Sensation”, attira subito l’attenzione dell’agente e collezionista d’arte Charles Saatchi. Un incontro fortunato e determinante. Da questo momento la carriera dell’artista australiano sarà sempre in salita. Ad oggi, come scultore iperrealista non ha rivali, né dal punto di vista strettamente tecnico né per quel che concerne la notorietà internazionale. Mueck, fin dall’inizio, sceglie di spingersi ben oltre gli emuli di Duane Hanson, ben oltre quell’iperrealismo di scuola anni Settanta – Ottanta finalizzato all’inganno visivo. (Continua a leggere)

LE FINESTRE IMPOSSIBILI | Un affaccio nell’opera di Carlo Bazzoni

Potremmo considerare la millenaria consuetudine architettonica di dotare le mura perimetrali di finestre come l’ovvia risposta all’ovvia domanda di aria e di luce, almeno sul piano più squisitamente pratico e strumentale. Allo stesso modo, l’opera d’arte appesa su parete ha ricoperto un ruolo altrettanto irrinunciabile per l’uomo, che attraverso questafinestra impossibile ha rimirato prospetti e sezioni del “naturale rappresentato”, sovente specchiandovisi e riconoscendovisi. L’analogia corre lungo i bordi delle rispettive quadrature, ma non si esaurisce sui margini, anzi proprio nel pieno del vuoto centrale trova nuove e più indubitabili similitudini. Come un panorama che si staglia al di là di una finestra, con la sua porzione di terra e di cielo, così i segni e le cromie che fanno capo a un’opera d’arte si dispiegano sulla trama della tela, suggerendo uno spazio in profondità. La finestra, per chi guarda dall’interno verso l’esterno, è un pulpito privilegiato che abbraccia una visione specifica, discriminante verso tutto ciò che è fuori campo. Alla stregua del suddetto pulpito, l’opera d’arte circoscrive categoricamente il soggetto (o il non-soggetto) rappresentato nel suo grembo bidimensionale, estraendosi ed estraniandosi dal contesto contingente. (Continua a leggere)

MY BUDDY | AMORI GOLIARDICI | La collezione fotografica di Michael Stokes

L’altra faccia della guerra è quella dell’amore, lo sa bene l’americano Michael Stokes, che per decenni ha raccolto una singolare documentazione fotografica che conta più di cinquecento esemplari. Protagonisti sono gli young soldiers della Seconda Guerra Mondiale: australiani, russi, americani, polacchi, inglesi e francesi, tutti per lo più giovanissimi. Le fotografie, spesso piccole, gualcite, smangiate nei contorni, ritraggono giovani maschi in equivocabili atteggiamenti di intima solidarietà, calati in un’arcadia bellica che a noi è dato di spiare solo nella parzialità del bianco e nero. Sono nudi, o seminudi, e sorridono, si abbracciano, si insaponano sotto la doccia, si rotolano sulla sabbia, sull’erba, ovunque li guidi l’ozio e la curiosità della gioventù. Molti non hanno ancora compiuto i vent’anni, ed esibiscono con una punta di malcelata ritrosia i timidi muscoli appena abbozzati dell’adolescenza. Altri, più maturi e piantati, si distinguono per una più spiccata spavalderia. La giovinezza però li accomuna tutti. Compagni di ventura, vanno tutti incontro a un medesimo destino, lontani dalla propria famiglia, dalla propria città e da quell’insieme di regole, convenzioni e consuetudini vissute e assimilate fino all’altro ieri. L’impatto violento della guerra li predispone a quello, altrettanto violento, dell’amore. (Continua a leggere)

AMEDIT MAGAZINE, n° 20 – Settembre 2014

Scoprire, svelare, togliere il velo. Spogliarsi, finalmente, di ogni impostura. Non sono forse i fantasmi ad agitarsi sotto i lenzuoli? Messa a nudo la verità si manifesta in tutta la sua limpida trasparenza. I tempi, ora, forse sono sufficientemente maturi per iniziare la svestizione, nel nome di una Civiltà necessaria, irrinunciabile. La donna, in particolare – così avvolta, appallottolata in una sottocultura che la vuole più femmina-madre che persona – farebbe bene ad affrancarsi sia dai burqa d’Oriente che dai botox d’Occidente. In questo numero la nostra riflessione si spinge oltre il velo, oltre gli intrighi di certe trame, oltre quelle ragnatele che hanno attecchito tra le culture e le religioni. Al velo che copre, ammanta e censura ben si farebbe a opporre il velluto di un sipario che si spalanca sullo spettacolo autentico e nudo della vita, una vita imprevedibile che per sua natura non assegna ruoli fissi ma solo opportunità. Ai metri e metri di tessuti luttuosi (tuniche, tonache o altre palandrane) e agli orditi sintetici (patine siliconiche o altri innesti sottocutanei) ci sentiamo di preferire le mise più adamitiche, figlie primogenite di un’umanità sana e naturale. Oltre il velo c’è dunque la persona, ed è a questa che bisogna guardare per poterla riconoscere e apprezzare nella sua unicità. La copertina ideata da Iano, significativamente intitolata “VE LO DO IO”, vuol far riferimento proprio a questo; nell’icona però, come in un gioco di specchi, è un’impacciata figura maschile a indossare il velo, nel caso specifico una veletta, che lo traspone in una condizione d’improbabile vedovanza (le ragnatele alle sue spalle rimandano a tradizioni e convenzioni obsolete e, al contempo, a temibili trappole). Amedit, giunta al suo ventesimo numero, desidera ringraziare ancora una volta tutti i suoi lettori, e un ringraziamento particolare va agli sponsor che con puntualità e coraggio sostengono orgogliosamente il nostro progetto. (Continua a leggere)