Archivio per giugno 2016

DOMUS RELICTA | Le case abbandonate

Su Amedit n. 27 – Giugno 2016

Cosa diventano le case quando smettono di essere abitate, quando coloro che vi hanno soggiornato, per una notte o per una vita intera, sono andati via per sempre? Restano le pietre a testimoniare un passaggio, un insediamento, una stanzialità, pietre pregne che come spugne hanno trattenuto gli umori e le stille, le folate e le raffiche, l’afa, la brina, il volgere eterno delle stagioni. Una casa abbandonata non è più una casa, è un luogo che sta nel mezzo, in una dimensione spazio-temporale sospesa, in muta oscillazione tra passato e presente. Le dinamiche dell’abbandono, quali che esse siano, inaugurano fin dal primo istante un lento processo di sconsacrazione: lasciata a se stessa la casa si avvia a diventare un rudere, una trista ruina, un informe cumulo di macerie (la pietra torna alla terra, sprofondando, sgretolandosi, stretta nella morsa delle rampicanti e delle erbe infestanti); prima però che il cerchio si chiuda, prima dello sfacelo, la casa abbandonata se ne resta lì per lunghi decenni, in desolata impassibilità, a incamerare oggi un segno, una screziatura, domani una crepa, un crollo, e via così, dalla patina bigia e cenerina all’insulto della scalfittura, dall’infiltrazione insidiosa al tremito del primo cedimento strutturale. Questione di tempo e tutto vien giù, intonaci e muri portanti, pilastri e stucchi, solai e cantine. (continua a leggere)

OLTRE LA PALUDE | La sesta beatitudine | L’ultimo romanzo di Radclyffe Hall

Su Amedit n. 27 – Giugno 2016

Una fiera natura maschile imprigionata in un corpo femminile: questo fu innanzitutto Marguerite Radclyffe Hall, scrittrice inglese nata a Bournemounth (Hampshire) nel 1886 e morta a Londra nel 1943, all’età di cinquantasette anni. Figura inquieta, ma coraggiosa e determinata, Radclyffe Hall ha saputo ritagliarsi un ruolo di tutto rispetto nella letteratura inglese del primo Novecento, sfidando le convenzioni di quella stessa società che pochi anni addietro aveva gettato nel fango Oscar Wilde, una società timorata e timorosa che continuava a perseguitare con le parole e con le azioni tutte quelle esistenze non allineate. A soli ventun anni “John”, questo uno dei suoi pseudonimi, entra in possesso di una cospicua eredità, comincia a viaggiare per il mondo (bardata perlopiù in eleganti abiti maschili) e pubblica a sue spese le prime raccolte di poesie. Nel 1907 si lega sentimentalmente alla cantante Mabel Veronica Label, ma il grande amore della sua vita sarà la scultrice Una Vincenzo (o Lady Troubridge, nota anche per aver tradotto in inglese l’opera di Colette). (continua a leggere)

COME BRADAMANTE E FIORDISPINA | La vita a rovescio di Caterina Vizzani in un romanzo di Simona Baldelli

Su Amedit n. 27 – Giugno 2016

Caterina è spavaldamente moderna, coraggiosamente libera, un raro esempio di sfacciata protoemancipazione e di rivendicazione identitaria in un mondo strutturato a compartimenti stagni, con ruoli fissi e immutabili, sanciti una volta per tutte e incontestabili. Prima che donna o uomo Caterina Vizzani (Roma, 1719 – Siena, 1743) è innanzitutto una persona che non vuole rinunciare alle pulsioni vitali della sua natura: ai suoi affetti, alle sue passioni, alle sue ambizioni emotive e professionali. Il suo primo biografo fu il dottor Giovanni Bianchi (Jano Planco), titolare di una cattedra di Anatomia presso l’Università di Siena. Breve storia della vita di Caterina Vizzani Romana che per ott’anni vestì abito da uomo in qualità di Servidore la quale dopo varj Casi essendo in fine stata uccisa fu trovata Pulcella nella sezzione del suo Cadavero, per ragioni di censura, venne stampato clandestinamente a Firenze nel 1744. Un’analisi più particolareggiata è stata condotta recentemente da Marzio Barbagli nel saggio Storia di Caterina che per ott’anni vestì da uomo (Il Mulino, 2014). È però grazie al potere vivificante del romanzo che la figura a rovescio di Caterina Vizzani riemerge con tutta la sua portentosa carica rivoluzionaria. (continua a leggere)

UNDERWORLD BERLINO | Fratelli di sangue | Un romanzo di Ernst Haffner

Su Amedit n. 27 – Giugno 2016

Sono nati a Berlino tra il 1914 e il 1918, nei tumulti del primo conflitto bellico. Si chiamano Jonny, Ludwig, Walter, Herwin, Georg, Willi…, e se hanno dei cognomi si guardano bene dal dichiararli alle forze di polizia; all’inizio degli anni Trenta la maggior parte di loro non ha ancora raggiunto la maggiore età (i fatidici ventun anni, spartiacque tra giovinezza e età adulta). Sono ragazzi allo sbando, senza famiglia, orfani o abbandonati, senza documenti, evasi dagli istituti di rieducazione e dai riformatori, sempre in fuga da qualcuno o da qualcosa. «Già quando compivano i primi passi sulle loro gambette arcuate, erano abbandonati a se stessi.» Continuamente braccati dal freddo e dalla fame questi figli della guerra rincorrono una felicità semplice, per forza di cose consolatoria, che il più delle volte finisce per tradursi in una libertà inafferrabile. Sono i figli di nessuno della Berlino prehitleriana, giovani wanderer senza fissa dimora, squattrinati, affamati, sudici, equilibristi della strada, mezzi ladruncoli e mezzi prostituti, al tempo stesso innocenti e delinquenti, sempre divisi tra l’onestà e la corruzione, ricchi solo di quell’inesauribile audacia che trasuda dalla giovinezza. (continua a leggere)